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Coordinated by Andreea ZAMFIRA

Per un’ Analisi Critica del Concetto di «Meritocrazia»

come «Ideologia» Neo-liberista

 

Salvatore CINGARI

University for Foreigners of Perugia

 

 

Abstract: This article examines a particular aspect of the linguistic and cultural «neoliberal» hegemony, namely the use of the term «meritocracy», as a concept related to the idea of improving the degree of justice in society. The view expressed here is that in a more general process («post-democratic»), this term has an «ideological» nature, in the sense that it actually functions as a mask of inequality. Therefore, the debate in Italy is reconstructed, considering some mainstream texts, but also some interventions that deconstruct the ideology.

 

Keywords: meritocracy, post-democracy, neo-liberalism, hegemony, ideology.      

 

 

         1. POST-DEMOCRAZIA ED EGEMONIA NEO-LIBERISTA

 

David Harvey, nel suo libro sulla storia del neo-liberismo[1], insiste «gramscianamente» sul ruolo dell’egemonia culturale conquistata dal neo-liberismo a partire dalla fine degli anni settanta. Tale egemonia corrisponde ai processi produttivi segnati dal passaggio al post-fordismo e alla finanziarizzazione dell’economia, agevolata dalle scelte politiche degli stati, in un quadro istituzionale che possiamo definire come «post-democratico».

Il termine «post-democrazia» è entrato nel linguaggio politico europeo con il libro di Colin Crouch del 2003[2]. Esso intende enucleare la costituzione materiale dei paesi capitalistici, così come si è andata assestando fra anni ottanta e svolta del secolo. Una realtà politico-sociale, cioè, in cui, a causa di una progressiva deregolamentazione dei mercati e della finanza, le concentrazioni di capitale privato si sono particolarmente rafforzate sovrastando il potere degli stati sovrani e quindi della cittadinanza democratica. Non sono più le aziende che cercano di guadagnarsi il favore degli stati, ma viceversa. Di conseguenza sulle grandi decisioni che riguardano la vita delle persone, influiscono sempre più le grandi lobbies economico-finanziarie. I partiti non hanno più il ruolo di mettere in connessione i bisogni delle persone e dei corpi sociali con le istituzioni, ma di collegare queste, appunto, ai poteri forti dell'economia privata. In questo scenario le istituzioni pubbliche, e, in particolare, le istituzioni di welfare vengono progressivamente erose da processi di privatizzazione, giustificati con le retoriche dell'efficienza e della produttività, ma, in realtà, mosse dall'esigenza di mettere a disposizione dei guadagni privati e di borsa più ampie fette di beni comuni.

Il risultato di questi processi è quindi una riapertura drammatica della forbice delle diseguaglianze sociali e un arretramento dei diritti individuali e collettivi. Non solo il lavoro diventa sempre più precario e non tutelato, oltre che scarsamente disponibile, ma i salari e gli stipendi vengono sempre più compressi in favore di rendite, prevalentemente finanziarie, e profitti. L'economia basata su delocalizzazioni, investimenti in marketing e nella finanza, fa sì che la produttività o i guadagni non corrispondano più allo sviluppo collettivo. Non più denaro-merce-denaro, ma denaro-denaro. La capacità, quindi, del capitalismo, di generare ricchezza collettiva, sembra spenta e, così, anche rotta la relazione fra capitalismo e democrazia[3].

La previsione è che in pochi anni sarà smantellata la sanità, l’istruzione e la previdenza pubblica, con una massa neo-servile assoggettata alla condizione precaria del lavoro e una minoranza oligarchica padrona delle risorse economiche. Un ritorno, perciò, all'antico regime, in cui pochi potranno istruirsi, spostarsi, curarsi etc. e molti avranno difficoltà a farlo. Si parla di «post-democrazia» perché tale situazione viene «dopo» alcuni decenni in cui la pressione esercitata sulle élites occidentali dai movimenti dei lavoratori e dell’Impero sovietico aveva generato un compromesso fra capitalismo e diritti sociali e, quindi, il ricordo di ciò dovrebbe consentire di misurare il presente col recente passato e con i suoi residui giuridico-istituzionali.

In questa temperie si diffondono saperi economici tutti schiacciati sull'economia neo-liberista ispirata dalla scuola di Chicago e discorsi etici e politici caratterizzati da una svalutazione dell'intervento dello stato e della gestione pubblica dei beni comuni, a vantaggio dell'idea che ognuno debba essere imprenditore di se stesso. L'uguaglianza economico-sociale viene svalutata, in quanto invece si ritiene che avvantaggiando i grandi patrimoni si determinino le condizioni per accumulare capitale da investire per una ricchezza comune che, come abbiamo visto, in realtà non si produce. La democrazia viene esaltata soltanto nel suo lato procedurale: essa è ritenuta in crescita sulla base dell'aumento dei paesi in cui si svolgono libere elezioni, ma senza che sia considerato il peso condizionante dei grandi poteri economici sulle dinamiche politiche e quello dei media e della microfisica «consumistica» del potere.

In questo ordine egemonico, un ruolo importante ha avuto in Italia, negli ultimi anni, il concetto di «meritocrazia». Tale idea è apparentemente connessa ad una critica democratica del sistema oligarchico. In un paese a scarsa mobilità sociale dove dominano le grandi famiglie, il nepotismo, il favoritismo, il clientelismo e talvolta la vera e propria corruzione, richiamare l'idea che l'assegnazione dei ruoli vada riportata al merito e alla competenza e non alle relazioni personali, sembrerebbe un assunto di semplice buon senso. E tuttavia tale discorso sta finendo per andare a configurare una vera e propria ideologia della diseguaglianza, in quanto va a giustificare le differenze di classe, configurandosi come una sorta di teodicea del neo-capitalismo. Il merito, quindi, non come base della distribuzione di determinati ruoli, ma come giustificazione delle posizioni sociali esistenti e delle differenze di classe. Il concetto di meritocrazia, inoltre, è volto anche a sottolineare la necessità di selezionare i ruoli sulla base di un criterio di efficienza ed a valorizzare, a questo fine, quindi, la formazione di classi dirigenti e di leaders piuttosto che l’attenzione all’elevamento culturale e civile dell’intero corpo sociale, il cui benessere è visto solo in funzione, appunto, della possibilità di essere guidato da «eccellenze» (concetto peraltro non privo di mediate suggestioni nietzschiane). Si tratta insomma non solo della diffusione di massa delle teorie elitistiche, ma di un ritorno in grande stile dello stesso elitarismo aristocraticistico e irrazionalistico (non a caso venato di giovanilismo) del primo novecento, che accompagnava, non a caso, i processi di accelerazione imperialistica del capitalismo, come George Lukács ben comprese nella Distruzione della ragione. L’elitismo stesso tende ormai a lasciare il campo democratico guadagnato con Shumpeter per tendere ad un «modello Singapore» in cui meritarsi i diritti non rimanda tanto alla sfera dell’autonomia personale quanto a quella dell’obbedienza e della subordinazione gerarchica[4], dal momento che non si tratta più, per i lavoratori, di organizzarsi ed unirsi per esprimere un confitto al fine di rivendicare collettivamente diritti individuali, ma di «stare al proprio posto», cercando individualisticamente di ottenere premi e approvazione dai superiori; e in cui è quindi facile slittare dall’idea che chi merita deve assumere più responsabilità a quella che chi merita deve avere più diritti.

Non stupisce allora che il dato più ricorrente nella letteratura «meritocratica» è l'assenza di attenzione per i meccanismi produttivi e redistributivi utili affinché una società abbia quelle caratteristiche di giustizia tali da far emergere il «merito». La meritocrazia viene declinata come uguaglianza di opportunità (che sarebbe anche sinonimo di «socialismo»), ma tale uguaglianza viene vista come il frutto di particolari sistemi educativi, oppure proprio come frutto della distruzione dello stato sociale, nell'idea che mentre esso accresce rendite di posizione, la società privatizzata favorisce la mobilità, come se il liberismo sfrenato non menasse alle concentrazioni oligopolistiche e quindi all'immobilità.

Che l'idea del «merito» sia poi connessa alla cultura economico-aziendale egemone emerge dal proliferare delle pratiche di valutazione quantitativa nella scuola e nell'Università, con le connesse dinamiche etico-culturali ispirate alla competizione e all'enfasi elitaria sull'eccellenza al posto della cultura egualitaria che si era affermata negli anni sessanta e settanta. Allo stesso modo, in campo sociale, si assiste ad una diffusione di una cultura securitario-autoritaria, in cui si distinguono i cittadini «meritevoli» da quelli «immeritevoli», spesso razzizzati e criminalizzati, in modo parallelo a come, a livello di politica internazionale, vengono stigmatizzati gli «stati canaglia».

Nel seguito di questo saggio intendiamo dapprima ricostruire alcuni aspetti della genealogia del concetto di «meritocrazia», soffermandoci poi su alcuni momenti del dibattito italiano attuale.

 

         2. PER UNO STUDIO GENEALOGICO

           DEL CONCETTO DI «MERITOCRAZIA»

 

La voce «meritocrazia» del dizionario di politica, a cura di L. Fisher[5], sottolineava come una società meritocratica (cioè dove il «kratos» è del merito) è una società in cui il successo educativo e sociale è il risultato 1) di doti naturali tipo l'intelligenza e 2) dello sforzo individuale. Si tratta di una prospettiva che critica il criterio «ascrittivo» basato sul privilegio di nascita e promuove quello «acquisitivo», basato cioè sul raggiungimento di posizioni acquisite grazie ai meriti individuali. Quest'ultima è una società meritocratica.

Un termine, questo, che oggi sembra indubitabilmente da declinare con quello di «democrazia». Ma basta guardarsi indietro di qualche decennio (a egemonia neo-liberista ancora da venire o da consolidare) per scoprire come invece esso possa anche classificarsi nello strumentario concettuale anti-democratico. Pensiamo che ancora nel 1998, Anthony Giddens, nel Manifesto della «Terza via», che a sua volta è oggi da ricordare più per i suoi cedimenti al neo-liberismo che per gli spunti di pensiero critico, arrivava a dire: «molti suggeriscono che oggi il solo modello di uguaglianza dovrebbe essere l’uguaglianza delle opportunità, o la meritocrazia – cioè a dire il modello neo-liberista». La meritocrazia, continuava Giddens, finisce per premiare oltre misura i più talentuosi che, poi, trasmetteranno i loro vantaggi per via ereditaria, trasformandoli in privilegi. Si impone, quindi, una mobilità verso il basso che mina la coesione sociale[6].

Era questa, di fatto, la posizione di Michael Young, intellettuale laburista scomparso nel 2002, il padre del termine in questione, che lo introduceva, però, titolando una vera e propria distopia, un romanzo sociologico del 1958 in cui l’autore sembrava all’inizio esaltare una società meritocratica per poi dipingerla catastrofisticamente nei suoi esiti castuali[7]. Per Young ogni uomo doveva essere giudicato nella sua differenza, nei suoi specifici talenti, irriducibili alle quantificazioni dettate dal mainstream sociale. E’ veramente un capitolo curioso della storia culturale contemporanea, il fatto che alcuni fautori della meritocrazia, fra cui lo stesso Roger Abravanel, su cui torneremo fra breve, considerino Young l’ispiratore della cultura meritocratica, quando il suo intento era esattamente l’opposto[8]. Nella stessa edizione italiana di The rise of meritocracy, uscita per le Edizioni di Comunità nel 1962, Cesare Mannucci, in sede di introduzione, parlava della meritocrazia come dell’ «esatta antitesi della democrazia».

Ma allora come è possibile che oggi il termine sia diventato parte dell’agenda politica dell’opinione pubblica, dei media e del personale politico di stampo «progressista»? In realtà, in effetti, il concetto, se non il termine, non è del tutto estraneo alla cultura di sinistra. Infatti è vero che esso si incarna nella cultura politica del dopo restaurazione, in sistemi elitistici come quello di Guizot, in cui non è più l’origine aristocratica, ma il merito personale cristallizzato nella ricchezza che attesta la capacità di attingere alla «ragione»[9]. Ma è vero anche che il problema di enucleare un’idea di società in cui il «merito» non è privilegio, è un tema che percorre la riflessione che, da Rousseau a Marx, cerca di andare oltre la democrazia liberale. E’ stato Galvano della Volpe[10], nel saggio intitolato, appunto, Rousseau e Marx e quasi coevo all’opera di Young, che ha cercare di ritessere questo filo. In Rousseau, scriveva Della Volpe, un problema di fondo era proprio quello di far sì che le diseguaglianze fra gli individui legate alla dimensione politica e civile, non siano differenti da quelle determinate dalla capacità di lavoro e dal talento degli stessi. Notava Della Volpe che è però soltanto con Marx che si effettua una critica risolutiva alle radici di quella discrasia fra ineguaglianza civile e ineguaglianza naturale, instaurandosi una società in cui ognuno riceva a seconda del proprio lavoro e cioè del proprio merito. Della Volpe, che scriveva in epoca post-staliniana, riteneva di vedere realizzato tale modello nella società sovietica. Ecco perciò che in qualche misura possono essere comprese certe convergenze fra Gobetti e il giovane Gramsci nel segno del liberismo meritocratico, in cui certo emerge l’ascendenza in certo modo «borghese» del lavorismo marxista. E’ lo stesso Della Volpe che, però, accenna all’inizio del saggio a un tema che poi non sviluppa, e cioè quello del comunismo come società che non dà più a tutti secondo il merito, ma secondo il bisogno. E’ solo per questa via che in certo modo si può emendare il «naturalismo» insito nello stesso Rousseau: se si premiano i meriti naturali, infatti, non si determina una nuova aristocrazia? Cos’era l’aristocrazia alle origini, se non una borghesia primitiva, che però agiva in campo militare piuttosto che nel mercato, per acquisire potere?

Ecco quindi che da un lato la linea Rousseau-Marx sottopone fortemente a critica l’idea meritocratica contemporanea. Essa, infatti, è sempre declinata sul piano della moralità e legalità pubblica, senza mai andare a vedere quale sia la situazione economico-sociale, nel suo lato produttivo e redistributivo. D’altro lato la tradizione marxista, con l’idea della centralizzazione del bisogno, condivide con la stessa democrazia costituzionale del secondo dopoguerra[11] l’idea che una serie di diritti sociali sono universali, a prescindere dal merito dei soggetti che ne sono titolari.

L’attuale discorso meritocratico, rimuovendo sia il problema dell’uguaglianza economico sociale per garantire pari opportunità, sia la questione di un livello di diritti riguardante la sfera del bisogno e non del merito, rischia così di diventare la giustificazione della diseguaglianza, mascherando i privilegi con il velo del «merito», come anche Fisher, negli anni settanta, sottolineava nella succitata voce del Dizionario di politica. Ma non c’è in gioco soltanto questa sorta di teodicea del capitalismo, ma anche la neutralizzazione del conflitto sociale. La società e le classi scompaiono di fronte all’individuo e alla sua responsabilità. In fondo si tratta della riproposizione di ciò che già si era affermato nella prima metà dell’Ottocento nei paesi anglosassoni, e nella seconda metà in Italia, e cioè l’ideologia del self-help[12], che tendeva a giustificare una ridotta mobilità sociale dalle «classi pericolose» alle élites. Si trattava cioè di una vasta pubblicistica rivolta al «popolo», a cui si diceva di vincere le tentazioni conflittuali verso le classi più abbienti, ed evitare le spinte aggregative fra svantaggiati per sconfiggere i forti, investendo le energie, all’opposto, nel pensare che ognuno, individualmente, poteva riuscire ad essere fra quei pochi che avrebbero scalato la vetta del successo: «fai da te», «aiutati che Dio t'aiuta», «chi la dura la vince», «chi si ferma è perduto». Questi sono alcuni dei motti self-helpisti, che, non a caso, consigliavano a tutti di «stare al proprio posto», al di fuori dei ristrettissimi canali deputati alla mobilità sociale consentita. Oggi – come nell'Ottocento il self-help - l’ideologia del merito giustifica la nuova disuguaglianza del nuovo ordine neo-liberista, che riproduce le società pre-democratiche dell’Ottocento.

La criminalizzazione della povertà, assimilata alla devianza e contrapposta al «cittadino meritevole», è un risultato, ad esempio, di questa logica. La meritocrazia rivela inoltre una certa parentela con il razzismo stesso: nella misura in cui, cioè, essa naturalizza la posizione sociale e quindi la essenzializza gerarchizzando così la società[13]. Anche per Rousseau, del resto, il «merito» era una «dote naturale».

      

 

3. UN CASO STUDIO: IL DIBATTITO IN ITALIA

 

3.1. Il best seller di Roger Abravanel. Un’analisi critica di un testo
                 emblematico del futuro «senso comune»

 

Nell’Italia di oggi il discorso meritocratico è diventato dominante, nell’agenda politica e nel dibattito mediatico, per due ragioni. Da un lato per l’esigenza di criticare i favoritismi e il nepotismo tipici di una società a bassa mobilità, atavicamente fondata su privilegi oligarchico-familistici, che divengono particolarmente pesanti in epoca di crisi. Si pensa però che il rimedio sia migliorare il meccanismo dei concorsi o abbassare gli stipendi di chi li vince, non di agire sulla sfera produttiva-redistributiva e politico-partecipativa, elevando il livello etico e l’effettiva parità di opportunità. Dall’altro il discorso meritocratico è fondato sulla critica dell’egualitarismo post-sessantotto. In realtà è da considerare se il vero obiettivo del discorso meritocratico sia in realtà l’eguaglianza e lo stato sociale in quanto erogatore di servizi universali volti a soddisfare il bisogno e non a premiare il merito.

E’ in questa temperie che è fiorita, nell’ultimo decennio, una pubblicistica particolarmente significativa in questo senso. Citiamo qui solo alcuni esempi. Pensiamo a La guerra del talento di Giuliano da Empoli, del 2000, in cui l’allora enfant prodige scriveva che la società non doveva accollarsi il problema dei fallimenti individuali e che la flessibilità andava vissuta come una grande opportunità, dato che le fluttuazioni della finanza e le possibilità offerte dalla rete, consentivano alle persone intraprendenti e di talento di mettersi sul mercato e vincere la lotta per la vita, come avviene nella Silicon Valley[14]. Posizioni, queste, sostenute anche dagli interventi ospitati sul «Sole 24Ore» e sul «Corriere della sera» da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi[15]. Ma pensiamo anche al libro di Adolfo Scotto di Luzio sulla storia della scuola italiana, in realtà estraneo agli accenti più volgari del neo-liberismo, al cui produttivismo anzi si contrappone, ma sulla base di un neo-gentilismo che ripristina, con eclatante sincerità, l’idea che soltanto chi se lo può permettere economicamente dovrebbe poter svolgere studi superiori, avendo cioè a disposizione il tempo e la tranquillità per farlo convenientemente[16].

Ma un testo particolarmente fortunato come vendite e diffusione è stato il best seller di Roger Abravanel, Meritocrazia. L’autore è stato consulente del ministero dell’istruzione nell’ultimo governo presieduto da Berlusconi, è membro della Fondazione Montezemolo ed editorialista dei due giornali di punta della borghesia italiana: il «Corriere della sera» e il «Sole 24 ore». Una prima cosa da osservare è che contrariamente alle retoriche liberali anti-totalitarie volte a stigmatizzare l’ideologismo giacobino-progressista, incurante della formazione spontanea dei valori sociali, Abravanel[17], più in linea con un approccio neo-cons, si fa esplicitamente fautore di un’ «ideologia» che debba «mobilitare migliaia di italiani eccellenti» per «trasformare la cultura e i sistemi di valori». C’è in gioco un «homo novus»: definire, cioè «nuovi valori morali per influenzare comportamenti diffusi fra milioni di persone». Insomma un vero e proprio progetto egemonico, che non esita ad auto-definirsi «ideologico». Il fine è produrre «leader eccellenti»[18] nel settore pubblico e in quello privato, ma anche maggior «sviluppo ed eguaglianza sociale», sebbene su quest’ultimo punto la sua posizione sia ambivalente. Poco dopo, infatti, egli precisa che in Italia la cultura meritocratica è stata in difficoltà perché c’è resistenza ad accettare la «piena responsabilizzazione degli individui e le pari opportunità orientate alla mobilità sociale», e inoltre è diffusa l’ indulgenza verso «chi sbaglia» e la critica della «disuguaglianza». Qual è allora l’uguaglianza che va assieme alla meritocrazia? E’ solo quella dei punti di partenza, mentre la diseguaglianza dei punti d’arrivo è un problema soltanto dell’antico regime, quando essa era basata su privilegi ascrittivi. Alla base di questo discorso c’è ovviamente l’idea che il merito sia all’origine delle diseguaglianze del sistema capitalistico e di quello neo-capitalistico in particolare, nell’epoca, cioè, di Bill Gates, in cui non ci sarebbe sfruttamento e il benessere finisce per favorire tutti[19].

Molte sono le pagine che destano impressione in questo volume, in considerazione del suo successo. Ad esempio il succitato testo di Michael Young viene considerato come un’esaltazione delle meritocrazia attraversata da qualche spunto problematico[20]. E’ già stato da altri notato come il termine «meritocrazia», coniato da Young in un’accezione negativa, sia poi stato utilizzato con una carica valutativa opposta[21]. Prima di morire Young aveva scritto una lettera a Tony Blair (uno dei punti di riferimento positivi dello stesso Abravanel), sulle colonne del Guardian del 29 giugno del 2001, in cui esprimeva il suo disappunto per il fatto di essere chiamato in causa come padre della «meritocrazia». Addirittura, per Abravanel, Young sarebbe un fautore della quantificazione del merito[22]. Se Abravanel concedeva che l’education act varato nel ’44 dai conservatori a seguito delle battaglie laburiste criticate da Young e che prevedeva i test a undici anni per capire se il soggetto poteva fare le grammar schools o le secondary moderns, era troppo rigido perché a quell’età il condizionamento familiare è ancora tropo forte, egli propone a modello il sistema americano, che prevede il momento della valutazione a diciassette, con un sistema universitario privato che, nonostante le preoccupazioni del celebre presidente di Harvard fra anni trenta e cinquanta, A. James Bryant Conant, fautore del sistema pubblico, avrebbe saputo ben recepire la politica delle borse di studio[23]. Abravanel guarda al modello americano anche perché in esso università e scuole inferiori in media non sono di alto livello ma spiccano le punte di eccellenza[24]. Nel contesto italiano, non conviene a suo avviso investire più soldi in Università e ricerca, ma convertire i già tradizionalmente stanziati alla valorizzazione dell’eccellenza[25]. Le stesse preoccupazioni di Young sulla possibilità che l’utopia meritocratica (nella lettura di Abravanel) possa degenerare in un’aristocrazia genetica, sono facilmente fugabili, a suo avviso, con un monitoraggio in età scolare, dato che «ricerche approfondite» (ma non precisate[26]) evidenzierebbero come a sette anni si possa prevedere il reddito del bambino a trentacinque[27]. Insomma Abravanel non comprende come il problema di Young non fosse l’errore possibile nel sistema di selezione genetico-aristocratico, ma il sistema stesso.

Per costruire una società meritocratica è necessario, per Abravanel, approntare sistemi di testing nelle università sul modello americano, rompendo con la diffidenza italiana per le classifiche e le misurazioni «obiettive e quantitative»[28]. Si tratta un po’, cioè, della filosofia che di recente cerca di improntare la valutazione universitaria italiana, i cui parametri quantitativi sono da tempo oggetto di accese critiche e dibattiti. Alla stessa filosofia attingono i test PISA, attraverso cui la scuola italiana è stata monitorata con il risultato di segnalare una forte discrepanza fra Nord e Sud.

Altra resistenza culturale alla meritocrazia, in Italia - paese, a suo avviso, dove domina una mentalità parassitario-assistenzialistica -, è secondo Abravanel la paura che essa porti al licenziamento dei nullafacenti e che inoltre, come temeva Young, si inauguri una «aristocrazia dello sperma». Egli fa invece notare come l’Italia abbia una delle società più diseguali del mondo, più di USA e Gran Bretagna[29]. Qui da un lato l’autore sembra non considerare come l’Italia abbia registrato nuovi coefficienti di accentuata diseguaglianza da quando le politiche neo-liberiste si sono gradualmente sostituite a quelle socialdemocratiche. Anche dove sostiene che le politiche per il mezzogiorno han dato risultati inaccettabili, sfornando dati dal 1995 al 2005, non considera come sia proprio in quel lasso di tempo che si inverte una tendenza invece positiva, in questo senso, nei decenni precedenti, in concomitanza con la fine dei provvedimenti redistributivi per il Sud[30]. D’altro lato va registrato come stranamente egli utilizzi USA e Gran Bretagna come esempi di società diseguali, dato che lamenta che l’Italia lo sia di più, quando poi in altri luoghi essi vengono rappresentati come modelli di società meritocratica e, quindi, secondo il suo discorso, di società egualitaria.

Il carattere «meritocratico» delle società anglosassoni è peraltro riportato da Abravanel alla cultura protestante e a quella laburista. Ciò secondo lui attesterebbe che anche in Italia il terreno può essere fertile ad una riscoperta, da parte della destra, del libero mercato e, da parte della sinistra, della mobilità sociale, in quanto l’incidenza della cultura cattolica e di quella comunista non dovrebbe quindi essere un ostacolo insuperabile[31]: ma in tal modo egli sovrappone in modo aproblematico protestantesimo e cattolicesimo, laburismo e comunismo. Tanto più che subito dopo viene fatto un rinvio al motto di uno dei modelli dell’autore e cioè la ditta McKinsey: «up or out»[32]. Nelle aziende, nota Abravanel, ormai lo stipendio non è più calibrato su posizione e anzianità aziendale, ma sulla «performance»[33]. Le aziende devono classificare i dipendenti, valorizzando i migliori[34]. Secondo Abravanel il «testing non può essere assolutamente l’unica misura di merito, ad esempio, degli studenti: bisogna poter anche valutare la personalità, l’autodisciplina, i valori morali. Ma questo può avvenire solo in maniera qualitativa, e richiede particolari capacità di valutazione e formazione da parte degli insegnanti. Tuttavia è a suo avviso essenziale avere degli standard misurabili; altrimenti le valutazioni qualitative portano alla mancanza di oggettività».

Importante è inoltre la questione del giovanilismo. Abravanel sostiene che in Italia c’è troppo rispetto per gli anziani, perché non è vero che questi ultimi siano più adatti a prendersi delle responsabilità. In realtà, a suo avviso, dopo dieci anni va riscontrato in ogni lavoratore un inesorabile appiattimento di prestazioni. Secondo Abaravanel un laureato del 2005 è in media migliore di uno del 1995, che è migliore a sua volta di uno del 1985. Insomma una visione ascendente della storia, praticamente, che mescola il concetto storicamente relativo di gioventù con quello assoluto di chi incarna il tempo nuovo: una sorta, cioè, di seminconsapevole miscela di giovanilismo e nuovismo[35].

Abravanel, peraltro, mostra di coltivare l’attenzione liberal-democratica per la valorizzazione dell’individuo a prescindere dall’appartenenza micro-comunitaria alla famiglia. Rileva opportunamente come il familismo in Italia sia anche il frutto del deficit di statualità[36]. Citando Napoleone, Hegel, Giddens e Young, egli sostiene l’idea di uno stato che ridimensiona il ruolo della famiglia nel senso di offrire agli individui «un’alternativa di appartenenza e di sviluppo»[37]. Ma non si avvede che le politiche neo-liberiste rilanciano le appartenenze naturali-tradizionali proprio nella misura in cui prevedono istituzioni che abbandonano socialmente l’individuo a se stesso.

E’ interessante che tale modello aziendalistico-produttivistico conviva con il riferimento ai metodi di selezione della RAF[38] e poi dell’esercito israeliano[39], fino a risalire alle pratiche di selezione spartana[40] e, soprattutto, a Platone[41], la cui utopia può anche essere pensata come una meritocrazia fondata su una metafisica delle idee. Tale idealismo, di fatto, converge tuttavia con le posizioni «naturalistiche», un po’ come i modelli cattolico e positivistico, nell’Ottocento, approdavano alle stesse posizioni sulla gerarchizzazione della società in sessi, razze e classi. Anche quando Abravanel si appoggia ad un riferimento venato di istanze democratiche, come Conant[42], fautore di borse di studio per i meno abbienti e per la confisca dei beni ereditati, il riferimento è alla «aristocrazia naturale» basata su «virtù e talento» di cui nel 1813 discutevano Thomas Jefferson e John Adams. Tale commistione di idealismo e positivismo è possibile rilevare anche nella pagina in cui Abravanel parla dei test SAT come di qualcosa di mistico, una sorta di degno sostituto «scientifico» della religione, che avrebbe portato gli intellettuali a capo della società come ai tempi della teocrazia. Possiamo pensare, per queste posizioni, al teorico del corporativismo fascista Ugo Spirito, passato da posizioni neo-idealistiche, nella prima metà del novecento, ad uno scientismo comtiano e spenceriano, che, nel secondo dopoguerra, rideclinava il capacitarismo corporativista nell’eugenetica[43]. Henry Chauncey, il padre dei test SAT – continuava Abravanel -, non a caso, parlava dell’ «equivalente morale della religione». Si tratta di utilizzare la «psicometria» per selezionare i leader delle masse, in un contesto in cui l’evoluzione dell’economia rende sempre più importante il manager e poi anche il «creativo» e il talentuoso, più che il tradizionale self made man di scarsa cultura[44].

Il problema del sistema educativo italiano è a suo avviso, infatti, quello di voler dare la stessa istruzione a tutti. Paradossalmente, per Abravanel, ciò fa si che poi vadano a contare non le pari opportunità ma il condizionamento familiare: egli crede infatti, naturalisticamente (e quindi, in pratica, razzisticamente), che esistano i «migliori» e che quindi basti selezionarli estraendoli dai contesti e non che essi gli appaiano «migliori» per via del contesto[45]. Addirittura Abravanel, in uno dei suoi passaggi che sarebbe sbagliato definire «politicamente scorretti», perché caratterizzati da una sorta di inconsapevolezza naive, sembra ironizzare sul fatto che senza una selezione dei migliori con istruzione ed educazione differenziate, non resterebbe altro che accontentarsi della scuola italiana che aumenta l’alfabetizzazione e integra le diverse culture: «le scuole sono piene di figli di immigrati – scrive testualmente - e «tutti vanno a scuola»»[46]. Insomma a suo avviso, nell’istruzione pubblica bisogna passare dall’idea di «tutti allo stesso modo», a «educare secondo il potenziale di ciascuno», dall’«eguaglianza del livello di istruzione alle pari opportunità nel ricevere la migliore educazione»[47]. I meritevoli non abbienti saranno supportati da borse di studio[48].

La nota autoritaria del neo-liberismo di Abravanel è evidente nel fatto ch’egli attribuisca un valore morale alla meritocrazia, radicato nella religione che punisce con l’inferno i peccatori. Il concetto di «merito» è alla base del modello di «legge ed ordine», di una giustizia «rapida e senza compromessi», tanto che in America, società meritocratica per eccellenza, la maggioranza dei carcerati ritiene di «meritare» la propria condanna[49]. Anche questo assunto sembra collidere con la nostra civiltà costituzionale: l’ha fatto notare Francesco D’Agostino, sottolineando che la sanzione non mira a punire il condannato, ma a «reintegrarlo» nella società, riconoscendolo come soggetto di diritto[50]. E’ utile ricordare qua anche Shakespeare che, nell’Amleto, fa dire al protagonista che trattare ogni ospite come «merita» avrebbe voluto dire condannare ognuno alla «fustigazione», data la condizione umana[51].

Secondo Abravanel, mentre nelle società feudali, schiaviste, castuali, la diseguaglianza giustifica privilegi ingiusti, nelle società meritocratiche la diseguaglianza è considerata «giusta» in quanto basata sulle «pari opportunità e la «mobilità sociale»[52]. Dal punto di vista specificamente politico, la nota più eclatante è l’enfasi positiva posta sul «sistema-Singapore», di cui esplicitamente si rimarca l’ordine ed efficienza come valori da apprezzare anche se non accompagnati da istituzioni democratiche. Singapore, per Abravanel, infatti, «non è una democrazia, ma i suoi cittadini non sembrano preoccuparsene più di tanto, visto che il livello di reddito pro capite è fra i più alti del mondo»[53]. Anche la Francia è peraltro considerata modello di meritocrazia nell’apparato pubblico, per l’eredità fortemente gerarchica di tipo napoleonico[54]. L’ordine discorsivo che stiamo analizzando, insomma, è emblematico della convergenza fra neo-liberismo e autoritarismo: della torsione anche culturale, insomma, verso la post-democrazia.

Abravanel non è per l’abolizione del Welfare, ma per la sua revisione in un sistema che incoraggi i «veri» deboli a prendere rischi[55], citando il Giddens della Terza via, che, però, abbiamo visto prima come diffidasse del concetto di «meritocrazia». Con un tono quasi sprezzante Abravanel sostiene che non bisogna fornire sussidi a «disoccupate» e «ragazze madri» ma finanziare più asili nido[56]. Il welfare, insomma, non deve essere una «rete di sicurezza dei barboni delle metropolitane»[57]. Questa immagine del «barbone» – che curiosamente sembra riprendere una tipica offesa rivolta dallo yuppie italiano degli anni ottanta a chi veniva ritenuto indietro nella scala sociale – ritorna a proposito del fatto che secondo l’autore in Italia c’è paura della meritocrazia perché si rifiuta l’idea dell’emarginazione a cui il modello americano sembra condannare fette significative della società[58]. E’ a suo avviso necessaria, del resto, la massima flessibilità sul mercato del lavoro, compensata dagli ammortizzatori sociali, ma il salario minimo deve esser basso come in USA, per far respirare le imprese[59]. Il servizio pubblico, inoltre, per Abravanel non deve diventare un’occasione occupazionale, ma puntare sull’eccellenza[60].

Coerentemente con le sue posizioni «platoniche», Abravanel è favorevole a pesanti tasse di successione (ma, in modo sintomatico, solo per ragioni «simboliche»), però non problematizza il nodo politico del loro attuale arretramento giuridico-politico nel mondo occidentale. Stesso discorso per il suo sostegno alla tassazione del capitale rispetto ai redditi da lavoro. Quanto ai cresciuti redditi dei super-ricchi, a suo avviso, essi sono da «lavoro» e non rendite da capitale, in un contesto economico idealizzato in cui le aziende sarebbero allergiche al nepotismo[61]. Arriviamo quindi ad un punto fondamentale del suo discorso: la forbice che si apre sempre più fra ricchi e poveri è, in realtà, un discrimine fra chi merita e chi no. L’importante è a suo avviso che, nonostante la diseguaglianza, il benessere collettivo aumenti, come (secondo la sua personale ricostruzione) insegnerebbe il modello inglese post-tatcheriano[62]. Probabilmente senza esserne consapevole, Abravanel torna ad usare toni di violenta intolleranza, affermando che con la globalizzazione, l’economia postindustriale e dei servizi (high tech), comincia a serpeggiare il credo che «i parassiti di oggi siano i poveri e non i ricchi»[63]. Le minoranze avrebbero oggi tutti i diritti di acceso all’educazione e per questo, dato che alla fine nessuno dovrebbe poter lamentarsi, si sta affermando un rigetto dell’egualitarismo e un primato della responsabilizzazione a svantaggio della solidarietà[64].

Il carattere ottimistico della visione abraveneliana emerge anche quando a quello ch’egli percepiva come uno sbandamento anti-meritocratico di Young, oppone che l’inglese «non poteva immaginare la società attuale, in cui i quotidiani abbondano di cronache e di storie che celebrano la gentilezza, il coraggio e la devozione di cittadini qualunque e la dignità di lavori umili»[65]. Per Abravanel il mondo di oggi è basato su una nuova economia dei servizi basata su un accesso ai beni dei redditi medio-bassi (discount, aerei low cost, telefonia, servizi finanziari). Quindi un miglioramento della qualità della vita dei cittadini[66]. La meritocrazia segnerebbe il futuro del mondo globale e sarebbe basata sulla «superiorità cognitiva»[67].

Ovviamente il testo è stato scritto pochi mesi prima che esplodesse in modo conclamato la crisi economica tuttora in corso.

 

3.2. Il dibattito italiano sulla meritocrazia

 

Il dibattito critico che si è cominciato a sollevare, in Francia ha prodotto il libro di Pierre Rosanvallon La société des egaux[68], in cui si denuncia la rimozione contemporanea del problema dell’uguaglianza sociale, frutto dell’enfatizzarsi di un individualismo consumistico, legato al neo-liberismo, che punta alla singolarità eccezionale – che sembra premiata dalla meritocrazia - più che all’uguaglianza fra i soggetti nel godere della libertà stessa.

In Italia, invece, negli ultimi anni, l’unico sforzo di ricerca di un qualche respiro, pieno di utili riferimenti bibliografici, è un numero del 2011 della rivista Paradoxa[69], dedicato alla diade «merito-uguaglianza». I saggi della silloge (a cui abbiamo già fatto sopra riferimento), di ineguale impegno teorico, sono in realtà diversamente orientati. In alcuni il valore della meritocrazia viene sposato senza riserve, con un chiaro allineamento all’ideologia neo-liberale oggi dominante sui media. Luigi Cappugi, ad esempio, facendo riferimento ad Hayek[70], sostiene che bisogna puntare ad una società che chieda meno tasse e cioè che faccia sì che gli «aiutati siano meno», in modo da incoraggiare le persone a fare di più. Contemporaneamente si associa a ciò la critica della «casta» dei politici che sprecano e si appropriano delle ricchezze pubbliche. Lo «Stato democratico – dice – è vissuto, a torto o a ragione, come un «distributore ingiusto e inefficiente di ricchezza altrui»». Anche Lucetta Scaraffia[71] dà una valutazione positiva del concetto. L’Italia è un paese non meritocratico perché deriva da una società cetuale e basata su piccole corti magari dominate da dinastie straniere, in cui il potere finiva per contare più del merito (a eccezione della Chiesa, caratterizzata da una maggiore mobilità sociale). L’autrice sostiene che con le riforme della scuola del primo centrosinistra si è cercato finalmente di introdurre stimoli meritocratici nel senso di offrire pari opportunità con la scuola media unificata. E tuttavia subito dopo rimpiange la scuola ben strutturata e severa di «un tempo» (che non viene, però, precisato) e si denuncia l’egualitarismo post-sessantottino, finendo per elogiare Paola Mastrocola che, nel noto best seller Togliamo il disturbo, propone di disfarsi «degli studenti che non hanno alcun interesse per lo studio né alcuna disponibilità a imparare ma che son costretti a continuare in omaggio all’ideologia ugualitaria, per cui la scuola sarebbe un diritto per tutti, fino all’Università»[72]. La Mastrocola propone invece che a continuare gli studi siano solo gli alunni veramente disposti a faticare e a impegnarsi. Anziché perseguire l’uguaglianza, un’idea di trasgressività conformistica e una creatività che non può essere di tutti, generando false aspettative, bisogna invece, per la Scaraffia, decretare la crisi «della scuola che deve accogliere tutti, che deve abbassarsi al livello dei meno dotati e dei più svogliati invece di selezionare i migliori».

Anche Pietro da Cortona ritiene che in Italia il merito sia stato sacrificato ai diritti «collettivi», ch’egli però non vede come tutela delle posizioni ingiustamente svantaggiate, che, in quanto tali, rinviano a diritti di carattere universale, ma a particolarismi corporativi. In modo sintomatico egli conclude: «so bene che il merito non è tutto e che non tutto può essere soggetto ad un tale criterio. Sono fermamente convinto però che quando il merito è applicato negli ambiti giusti abbiamo maggiori probabilità di vivere in una società più funzionale, più efficiente e, forse, addirittura più giusta ed egualitaria». Insomma («si noti il «forse, addirittura»): la giustizia e l’eguglianza sono un optional, mentre i valori sociali primari da perseguire sono la «funzionalità» e l’ «efficienza»[73].

Laura Paoletti[74] ritiene necessario trovare criteri oggettivi per valutare il «valore aggiunto culturale» e poter così selezionare i tagli alla cultura, che vengono dati come «naturali». Sebbene l’autrice sia consapevole che non si può fondare un criterio oggettivo, elevandolo a criterio assoluto, ella ritiene tuttavia che si possa prenderlo come criterio per «gestire e orientare certe dinamiche nella direzione desiderata». L’idea è che i beni culturali (musei, biblioteche, Archivi) si misurino con il numero dei visitatori o con il numero di volumi posseduti. Da un lato la Paoletti riconosce che non si può schiacciare l’identità di un istituto culturale sul marketing, ma dall’altro non può fare a meno di concedere che se un evento culturalmente significativo non richiama pubblico, allora il problema è, appunto, nel piano «marketing». Sembra quasi che la «ragione» combatta con le urgenze del pensiero unico astratto disseminato ormai nei saperi gestionali, pubblici e privati. In pratica una biblioteca settoriale (o archivio o museo) frequentata da pochi cultori o con pochi volumi, deve essere più facilmente tagliata di un’altra con coefficienti più alti che, però, nulla dicono del suo effettivo significato scientifico-culturale.

Gli ultimi tre saggi della silloge si discostano invece dalle posizioni appena riassunte. Mario Tesini mantiene un approccio molto sorvegliato e abbozza una ricostruzione genealogica del termine, da Young a Bourdieu, e, guardando al concetto dietro la parola, risalen anche ai classici della letteratura, oltre a soffermarsi in modo particolare su Guizot. A riscontro egli dedica alcune pagine critiche proprio ad Abravanel, enuncleando il dichiarato carattere «ideologico» del suo discorso[75]. Se per Tesini la meritocrazia può costituire un criterio «orientativo» utile, qualora esso invece voglia diventare un parametro di valutazione oggettivo fondativo di un nuovo ordine sociale, allora l’esito è la distopia di Young.

Anche Marcello Ostinelli[76], riprendendo Rawls, problematizza il concetto di meritocrazia. Così come le diseguaglianze sono accettabili solo se vanno a vantaggio dei più deboli, così è necessario che la «giustizia» prevalga sull’idea di una società in cui i più forti abbiano il diritto di sopravanzare i più deboli. Nella scuola pubblica, ad esempio, la meritocrazia non può essere il criterio di base: infatti l’insegnante deve tenere conto non solo dei risultati ottenuti, ma degli sforzi compiuti, dato che lo scopo della scuola democratica non è solo premiare i più fortunati, ma aiutare i «meno fortunati ad avere un senso di fiducia nel proprio valore». Ma è Francesca Rigotti che effettua una vera e propria requisitoria del termine «meritocrazia» proprio dal punto di vista della categoria di «eguaglianza», sempre più espulsa – nota la studiosa - dal dibattito politico e teorico-politico. Senza l’ «eguaglianza», la libertà diventa un concetto vuoto e aperto ai contenuti discriminatori e particolaristici, come dimostra una realtà sociale in cui avanza ideologicamente la meritocrazia liberale e arretrano i diritti sociali e le opportunità della maggioranza dei cittadini. A Rawls, Dworkin e Sen vengono oggi contrapposte le teorie di Frankfurt, Walser, Naussbaum, Anderson e Krebs, secondo cui alla natura relazionale dell’eguaglianza va preferita l’idea di una «vita buona in assoluto»[77].

Su questa linea vanno registrati una serie di interventi critici, effettuati soprattutto su quotidiani e quindi di carattere spesso rapsodico ma non per questo meno utili. Ne citiamo qui alcuni. Nadia Urbinati ha opportunamente rilevato come l’errore della visione meritocratica stia nell’idea di fondare la società giusta sul «merito», quando è vero l’inverso: è il «merito» (come coincidenza di lavoro e capacità da un lato e ruolo dall’altro) che invece fiorisce sulla base della società «giusta»[78]. Bruno Accarino[79], ha invece rilevato un altro aspetto fondamentale: e cioè la «teologicità» del concetto del «merito», sottolineata anche da Vittorio Mathieu nel succitato fascicolo di «Paradoxa», che ne ha segnalato la rideclinazione laica nel concetto kantiano della virtù[80]. Come si può fondare l’idea della società giusta sull’idea del «merito», se poi questo è qualcosa di assolutamente indefinibile in modo valido per tutti? Chi può dire se vale di più la capacità calcolatrice di un matematico oppure quella affettiva di un infermiere nell’accompagnare alla morte i malati terminali? Ecco come si spiega la furia quantificatrice dei fautori dell meritocrazia come Abravanel. In realtà, dietro l’impossibilità di riempire di un contenuto univoco il concetto, si apre il varco alla sua ideologizzazione in senso neo-liberista. E’ stato Giacomo Marramao, in un pezzo su «Liberazione», ha sottolineare come in realtà l’idea del «merito» coincida con le tre «I»: impresa, inglese, informatica. Avviene così uno schiacciamento del concetto sulle qualità funzionali all’attuale sistema produttivo. La ristrutturazione del sistema universitario in modo sempre più funzionale al mercato è connesso, ovviamente, a questa dinamica[81].

Giuseppe Caliceti[82] ha giustamente rilevato come la meritocrazia e la competizione, nella scuola pubblica, confliggano con la sua natura democratica. Infatti la scuola pubblica deve essere rivolta proprio a aiutare chi è in posizione di svantaggio, non tanto a valorizzare chi già mostra di essere migliore degli altri. Questo da un lato perché spesso le differenze di attitudini sono determinate dall’ambiente sociale, ma anche perché, pur se esse rimandino invece a una sfera «naturale», ciò non significa che la scuola non debba cercare di valorizzare anche soggetti non particolarmente talentuosi. C’è, insomma, una sfera del diritto e del bisogno che prescinde da quella del merito. Ed è su quella che soprattutto si misura il grado di democraticità di una società. Maurizio Ricciardi ed Enrica Rigo hanno denunciato come ormai negli scaffali degli intellettuali progressisti non ci sia più Pierre Bourdieu, che sottolineava come «la monopolizzazione del capitale culturale è funzionale alla costruzione di gerarchie invalicabili». Ecco perché è deficitaria l’idea che soltanto intervenendo sulle istituzioni scolastiche e universitarie, rendendole più meritocratiche, come vorrebbe Abaravanel, si riuscirebbe a sposare democrazia ed eccellenza. In realtà – sottolineavano sempre Ricciardi e Rigo – indebolendo scuola e università pubblica, come è stato fatto negli ultimi anni, non si fa che distruggere l’unico spazio in cui si era riusciti a ridurre le distanze fra le classi sociali[83].

E’ possibile insomma decostruire il discorso meritocratico nella sua natura «ideologica» di falsa coscienza del ciclo neo-liberista e neo-autoritario, alla fine degli anni settanta sviluppatosi in contrapposizione ai valori democratici e sociali del secondo dopoguerra. Una reazione che, indebolendo a vista d’occhio l’inclusione sociale, è dubbio anche che possa generare una società dinamica e produttiva.


Bibliography

 

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[1] David HARVEY, Breve storia del neoliberismo, Il saggiatore, Milano, 2007.

[2] Colin CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma & Bari, 2003.

[3] Cfr. Alberto BURGIO, Senza democrazia, Derive APPRODI, Roma, 2009; Luciano GALLINO, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011; Piero BEVILACQUA, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma & Bari, 2011.

[4] Cfr. Bruno TRENTIN, “A proposito di merito”, L’Unità, 13 luglio 2006.

[5] Dizionario di politica, UTET, Torino, 1976.

[6] Anthony GIDDENS, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, Il saggiatore, Milano, 1999, pp. 102-103. Per Giddens era illusorio pensare che l’istruzione potesse colmare le diseguaglianze in modo diretto, dato che il livello di essa rispecchia le diseguaglianze stesse (ivi, p. 110). Anche per Romano Prodi, autore della prefazione, non bisognava rincorrere «sconsideratamente le mitologie liberiste e meritocratiche» (ivi, p. 10).

[7] Michael YOUNG, L’avvento della meritocrazia (1958), Edizioni di comunità, Milano, 1962.

[8] Roger ABRAVANEL, Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il ostro paese più ricco e più giusto, Garzanti, Milano, 2008.

[9] Cfr. ad es. François GUIZOT, Della sovranità, Editoriale scientifica, Napoli, 1998; Della democrazia in Francia (1848), Centro editoriale toscano, Firenze, 2000. Su Guizot come teorico del merito cfr. Il bel saggio di Mario TESINI, “Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico”, Paradoxa, gennaio-marzo 2011, pp. 59-64.

[10] Galvano DELLA VOLPE, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica (1957), Editori riuniti, Roma, 1962 (ed. accresc.).

[11] Utilizziamo questo termine nel senso di Luigi FERRAJOLI, in Principia iuris, tomo II, Teoria della democrazia, Laterza, Roma & Bari, 2007.

[12] Su questi temi cfr. le indicaz. bibl. in Salvatore CINGARI, L' "onda di fondo". Liberalismo e riforma del carattere negli epigoni italiani di Samuel Smiles, Incontri mediterranei, No. 1, 2004, pp. 149-160.

[13] Su ciò cfr. Alberto BURGIO, Nonostante Auschwitz. Il «ritorno» del razzismo in Europa, Derive Approdi, Roma, 2010.

[14] Giuliano Da EMPOLI, La guerra del talento, Marsilio, Padova, 2000.

[15] Alberto ALESINA, Francesco GIAVAZZI, Il liberismo è di sinistra, Saggiatore, Milano, 2007.

[16] Adolfo Scotto DI LUZIO, La scuola degli italiani, Il Mulino, Bologna, 2007.

[17] Roger ABRAVANEL, Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento…cit., pp. 14-18.

[18] Cfr. anche ivi, p. 241.

[19] Ibidem, p. 20.

[20] Ibidem, pp. 20, 37-41, 53-55, 109.

[21] Su ciò Mauro BOARELLI, “L’inganno della meritocrazia”, Lo straniero. Arte-cultura-scienza-società, aprile 2010, No. 118 [www.lostraniero.net]; Mario TESINI, “Meritocrazia, merito e storia…cit.”, p. 66.

[22] Cfr. Roger ABRAVANEL, Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento...cit., p. 68.

[23] Ibidem, pp. 52-57. Pur ritenendo che studi non meglio precisati dimostrerebbero che il condizionamento familiare incida meno dell’intelligenza cognitiva e delle capacità caratteriali, Abravanel sostiene poi, contraddittoriamente, che lo stesso condizionamento sia fondamentale per determinare il livello di migliori opportunità educative. Ivi, p. 61.

[24] Ibidem p. 81.

[25] Ibidem, pp. 207-210.

[26] Anche Mauro BOARELLI, “L’inganno della meritocrazia…cit.” [www. lostraniero. net], fa notare la frequente mancanza di riferimento alle fonti da parte di Abravanel.

[27] Cfr. Mario Tesini, “Meritocrazia, merito e storia…cit.”, p. 83.

[28] Ibidem, pp. 21-22.

[29] Ibidem, pp. 24-25, 159.

[30] Ibidem, p. 192.

[31] Ibidem, p. 25.

[32] Ibidem, pp. 25-26.

[33] Ibidem, p. 130.

[34] Ibidem, p. 133.

[35] Ibidem, p. 175.

[36] Ibidem, p. 186.

[37] Ibidem, p. 184.

[38] Ibidem, p. 131.

[39] Ibidem, pp. 141-143.

[40] Ibidem, p. 40.

[41] Ibidem, p. 41, 143-144.

[42] Ibidem, pp. 42-47.

[43] Cfr. su ciò, Salvatore CINGARI, “Ugo Spirito e la rivoluzione passiva. Note a margine”, Bollettino telematico di filosofia politica, 1 ottobre 2012.

[44] Cfr. Roger ABRAVANEL, Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento…cit., pp. 49-51.

[45] Ibidem, p. 256.

[46] Ibidem, p. 257. Abravanel passa a criticare il sistema educativo italiano, sostenendo che i test Pisa pongono lItalia agli ultimi posti (ivi, p. 246) e che addirittura un terzo delle lauree sarebbero valutate 110 e lode, aggiungendo che «secondo il rettore di unimportante università italiana, da noi il 110 e lode di una bella ragazza viene considerato quasi sicuramente immeritato» (ivi, p. 247). Segue la descrizione del sistema dei concorsi con il risultato predefinito, caratterizzati da minacce fisiche di tipo mafioso (ivi, p. 248).

[47] Ibidem, p. 314.

[48] Ibidem, p. 315.

[49] Ibidem, pp. 60-61.

[50] Francesco D’AGOSTINO, “Ben gli sta: che cosa merita un criminale”, Paradoxa, Vol. 1, 2011, pp. 18-23.

[51] Cfr. Mario TESINI, Meritocrazia, merito e storia…cit., p. 59.

[52] Roger ABRAVANEL, Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento…cit., p. 62.

[53] Ibidem, pp. 21, 145. Tipica dell’atmosfera del libro, la seguente frase supporto delle argomentazioni svolte: Lee Kuan Yew, considerato da Henry Kissinger «l’uomo più intelligente nel mondo orientale» (p. 146).

[54] Ibidem, pp. 147-152.

[55] Ibidem, p. 69.

[56] Ibidem, pp. 85-86.

[57] Ibidem, p. 95.

[58] Ibidem, p. 108.

[59] Ibidem, pp. 88, 206.

[60] Ibidem, pp. 85-86, 88.

[61] Ibidem, p. 73, 161.

[62] Ibidem, p. 74.

[63] Ibidem, p. 115.

[64] Ibidem, p. 116.

[65] Ibidem, p. 94.

[66] Ibidem, pp. 196, 199.                              

[67] Ibidem, p. 97. Le pari opportunità nell’educazione a favore delle classi svantaggiate, alla fine vanno comunque a premiare una minoranza (ivi, pp. 100-101). Abravanel sembra ora dire che il contesto familiare è più importante dei fattori ereditari e critica anche The bell curve (ivi, p.106). Egli sottolinea come l’intelligenza cognitiva non sia la sola da considerare in prospettiva meritocratica, ma anche quella emotiva, caratteriale e comunicativa deve essere valutata per prevedere il reddito futuro (ivi, pp. 106-107, 157-158).

[68] Pierre ROSANVALLON, La société des égaux, Editions du Seuil, Paris, 2011.

[69] Paradoxa, Gennaio-Marzo 2011, No. 1, Anno V.

[70] Luigi CAPPUGI, “Merito e uguaglianza: discorsi vecchi e attuali difficili e semplici”, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, pp. 42-45.

[71] Lucetta SCARAFFIA, “L’antimeritocrazia italiana”, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, pp. 36-41.

[72] Paola MASTROCOLA, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Feltrinelli, Milano, 2011.

[73] Pietro GRILLI di CORTONA, “Significato e ruolo sociale del merito: alcune riflessioni”, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, p. 35.

[74] Laura PAOLETTI, “Le molte facce del merito”, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, pp. 8-12.

[75] Cfr. Mario TESINI, Meritocrazia, merito e storia…cit., pp. 55-68.

[76] Cfr. Marcello OSTINELLI, “Eguaglianza e merito nella scuola pubblica”, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, pp. 69-81.

[77] Cfr. Francesca RIGOTTI, “Contro il merito”, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, pp. 82-93.

[78] Nadia URBINATI, “Il merito e l’uguaglianza”, La repubblica, 27 Novembre 2008.

[79] Bruno ACCARINO, “Meritocrazia come premio di obbedienza”, Il manifesto, 25.06.2008.

[80] Cfr. Vittorio MATHIEU, La meritocrazia come postulato, Paradoxa, No. 1, Anno V, 2011, p. 14.

[81] Giacomo MARRAMAO, “Montezemolo? Una retorica del merito grave e discriminatoria”, Liberazione, 2 giugno 2007.

[82] Giuseppe CALICETI, “Appunti di scuola. Quanti scempi in nome della meritocrazia”, Il Manifesto, 9 novembre 2008; Giuseppe CALICETI, “Le aberrazioni di Abravanel”, Il Manifesto, 06-10-2012.

[83] Enrica RIGO, Maurizio RICCIARDI, Meriti senza debiti: quel diritto allaccesso negato dalla meritocrazia, Il manifesto, 2 febbraio 2012.